Donne e sessismo linguistico

SESSISMO LINGUISTICO E BRUTTE PAROLE

“BRUTTE PAROLE” TRA L’ESSERE “MESTRUATA” E L’ESSERE “INGEGNERA”

C’è il sessismo linguistico. E ci sono le brutte parole che sono state affibbiate a sfere dell’esperienza femminile nel mondo.

Mi sono spesso chiesta perché tante parole che riguardano noi donne sono così brutte, così antimusicali e sgraziate?

Mestruazioni. Menarca. Dismenorrea. Femminicidio.

Al loro posto vorrei sostituirvi qualcosa di più aggraziato, poetico, rispettoso.

Chessò, al posto di mestruazioni, pioggia rossa, o lava, o frana.

Menarca? Preferirei prima luna, o bocciolo, oppure che si inventasse una parola soffice apposta, esclusiva per raccontare la comparsa del primo ciclo.

Dismenorrea, poi, suona davvero orribile. Cos’abbiamo fatto di tanto male, oltre a dover patire i dolori e gli inconvenienti che questi fenomeni portano con sé, da dover anche indicare questi fenomeni con suoni tanto brutali? Chiamiamola temporale, ovaie confuse, o forse tramestio mensile.

Femminicidio, poi, sembra proprio avvicinarsi molto all’orrore del fatto che indica. Ma è come se sentissi che non ci rende onore. Forse “delitto del fiore” sarebbe più corretto e più visivo, anche se uccidere una donna potrebbe più e meglio corrispondere a “la fine dell’uomo”, che non a un termine che riguardi quello che subisce lei. Poiché dove si oltrepassa quel limite, un uomo smette di essere tale.

Avete altri esempi? Siete benvenute a partecipare alla rivoluzione della lingua italiana al femminile!

Inoltre, negli ultimi anni non è infrequente il dibattito sul sessismo linguistico, espressione che deriva dalla sua versione originaria statunitense degli anni Sessanta “linguistic sexism”.

 

sessismo linguistico

 

Riguardo il genere delle parole che designano certe professioni, ho trovato molto giuste le considerazioni di Cecilia Robustelli, docente di linguistica italiana, su quanto sia ancora difficile l’introduzione e l’utilizzo corretto di molti termini al femminile nella nostra lingua. Mi è piaciuta molto una sua frase:

“Il genere grammaticale non si sceglie, esiste.”

Alcuni esempi di termini esistenti al femminile, ma che la cultura dominante ha fatto sempre passare per poco orecchiabili o, peggio, “brutti”? Beh, guarda caso riguardano tutte professioni di alto livello e posizioni di potere. Lungi da me l’idea di sminuire chi fa la parrucchiera, o l’infermiera, o l’estetista, ma perché se ci avviciniamo alla politica o alla scienza i termini al maschile ce li hanno sempre fatti sembrare più “corretti” o più adeguati? Sto parlando di “ministra”, “dottora”, “sindaca”, “medica”, “ingegnera”, “rettrice”, “architetta”, per fare solo qualche esempio.

Sono termini a tutti gli effetti corretti, registrati dall’Accademia della Crusca. Perché continua a farci così paura quella “a”, perché a volte noi stesse donne la avvertiamo come fuoriposto e abbiamo quasi paura a riprenderci il nostro posto nel mondo? Perché questi termini ci suonano ridicoli al femminile? Abitudine? Conservatorismo linguistico? O sociale? E’ interessante infatti notare quanto sia sottile la linea che divide le abitudini linguistiche di un popolo dalle sue proprie realtà.

Se volete il mio parere personale, promuoverei tutti questi termini declinati anche al femminile. Perché se “ministra” è così tanto più brutto di “ministro”, allora un termine come “dismenorrea”, per favore, anche se nato femminile, sarebbe proprio da abolire…

Insomma, mettiamoci in testa che il linguaggio non è mai neutro. Se dico dottore, sto trasmettendo il messaggio “uomo + professione medica” e non comunico nulla di femminile. La nostra essenza lì langue, come in tante altre sfere del mondo di oggi, motivo per cui anche oggi ci siamo radunate nel bosco. Per parlarne.

Questo tema, dagli anni dell’inizio dell’emancipazione femminile a oggi, ha acceso un dibattito che ha attraversato tante discipline, dalla linguistica alla semiotica, dalla sociologia, alla critica, alla politica e all’attualità. Il verbo, la lingua parlata, è uno strumento potente. Se pensiamo anche solo che per millenni l’essere umano ha tramandato il suo sapere per via orale, in tante culture, ci facciamo una vaga idea di quanto forte sia il nostro legame tra essere ed espressione verbale.

A tal proposito, trovo interessante il libro di Maria Serena Sapegno (docente di letteratura italiana e introduzione agli studi di genere all’Università La Sapienza di Roma ed esperta di scritture femminili e femministe): “Che genere di lingua? Sessismo e potere discriminatorio delle parole”, che include anche prospettive di ampliamento sul tema nell’istruzione e interventi di docenti. Se vuoi darci un’occhiata o direttamente fartelo recapitare a casa, puoi trovarlo qui.

Qui un articolo interessante sul tema, di Cecilia Robustelli – con in fondo una bella bibliografia.

Infine, non vado a dilungarmi sui “modi di dire”, ossia le frasi idiomatiche  e le espressioni gergali o popolari storicamente maschiliste o sminuenti nei confronti della donna. Mi sovviene solo un episodio carino di tanti anni fa, quando, in un gruppo di ragazze, di fronte all’espressione: “Ah, ma tu sei una donna con le palle”, una mia amica si è infastidita e ci ha risposto: “No, basta con questa storia, io sono una donna con le “ovaris”, e lo siete anche a voi: da oggi in poi ricordatevelo.

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