addio guerriero

ADDIO, GUERRIERO CON L’ANIMO DI UN FIORE

CIAO AMICO CARISSIMO

Già in passato ho utilizzato i racconti del “Diario” del Bosco Femmina per rendere onore a due persone care che si sono spostate sull’altro piano, che hanno lasciato il corpo (articoli “Arrivederci forza della natura” e “Una prova dell’aldilà”) .

L’ho fatto perché ho ritenuto preziosa la condivisione di ciò che mi avevano passato, del valore di queste persone. Perché sono sempre persone troppo belle per non condividere con chi mi legge la loro essenza, unica e inestimabile – e i loro insegnamenti, che sento il dovere di trasmettere ad altri oltre che a me.

Questa volta se n’è andato qualcuno che mi era ancora più vicino. Così vicino non mi era mai successo.

Poiché non riesco più a scrivere da giorni (da quel giorno) a meno che io non scriva, come sempre, di ciò che sto vivendo anima e corpo, ora tocca a lui. Per forza, tocca a lui, e questo spazio sarà suo per sempre – così come gli spazi dentro di me e dentro chiunque abbia letto e legga ciò che segue.

Grazie Luciano.

Se rileggo i tuoi messaggi vedo quanto erano sempre belli e pieni di gratitudine e quanto brillano oltre il tempo.

Avrei voluto darti di più, ma ho fatto quello che potevo (e tu che mi ringraziavi sempre come se fosse davvero tanto…).

Buona lettura a tutti – che queste energie possano riempire i vostri cuori.

ciao amico

Ciao, guerriero con l’animo di un fiore.

Ho bisogno di un po’ di silenzio per un paio di giorni forse, diciamo che al momento non so bene come rimettere insieme i pezzi, sia della mia mente sotto shock che ha bisogno di elaborare, sia dei cavi e dei pezzi del mio cervello esterno: il computer – nel mezzo di un trasloco e della perdita improvvisa e inaspettata di un amico.

Mi chiamava “bella creatura”, “tesoro”, “bella anima” e lo faceva solo lui, e lo faceva in modo puro. E se qualcuno si legge i messaggi tra noi, avremmo potuto sembrare amanti, ma eravamo Amici. Certamente anime affini. E certamente pochi possono davvero capire.

Ecco… secondo voi, come bisognerebbe darla questa notizia?

Dire “è morto”, dire “se n’è andato”, dire “è scomparso” (mi parrebbe strano, non si scompare nel nulla…) o dire “ha lasciato il corpo”? O “è andato in cielo”?

Beh, di tutte queste spesso subiamo la peggiore: “è morto”, l’unica opzione che non prevede un’azione da parte del tuo caro, ma solo la sua inazione, come se una persona potesse davvero “finire” – la passività e l’assoggettamento assoluto a qualcosa che non poteva governare.

Conoscendolo, non era affatto il suo caso.

Lui era già stato vicino alla morte, parlavamo spesso della sua esperienza del coma di circa trent’anni fa e di come la cosa lo avesse reso estremamente più sensibile a tutti gli stimoli: il suo sentire era amplificato, espanso e a volte anche sensitivo-medianico.

Lui era uno dei pilastri maschili portanti della mia vita.

Una forza protettiva e di sostegno tangibile, virile, paterna, pulita; gliel’avevo detto, un “gigante buono”, al punto che un paio di volte nella vita l’avevo sognato di notte, traendo forza da questo suo modo di proteggermi.

Al punto da sentirmi sempre in debito, con lui che era disposto a correre da me anche di notte se avessi avuto dei pensieri (e si offendeva quando non lo chiamavo se stavo male) e a salvarmi il culo più volte dopo aver bucato una gomma o essermi fatta sequestrare la macchina per le mie solite sbadataggini burocratiche.

Nessun altro potrà comprendere il caos della mia macchina che contiene mezzo bosco e tutto il necessaire per vivere all’aperto.

Se non fosse stato che fumava anche lui, si sarebbe preoccupato al vedermi fumare il mio paio di sigarette al giorno, ma sapeva che su questo non avrebbe avuto voce in capitolo.

Lui era un guerriero con l’animo di un fiore. Pochi da fuori lo avrebbero detto.

Dieci sere fa era a cena a casa mia e sforava sempre il coprifuoco pur di non terminare le nostre confidenze a buon rosso e lume di candela.

Manco me lo fossi sentita, quella sera lo abbracciai per un minuto intero e, una volta a casa, mi scrisse: “Con quell’abbraccio mi hai attraversato.”

Messaggi ora nelle mani di persone a me estranee (anche se confido che il figlio sia dolce come lui, e credo proprio di sì, visto che ha avuto la delicatezza di chiamarmi per dirmelo).

Per me lui era l’uomo indistruttibile.

In un’officina al freddo dodici ore al giorno, saltava il pranzo tutti i giorni per riparare le auto degli amici nell’unica ora di pausa e ogni weekend a pesca nella sua oasi preferita, o nella “mia”, rifornitissimo di grande tenda militare con stufa che scaldava più che a casa mia.

L’unico uomo che andasse a pesca rilasciando il pesce dopo appena una manciata di secondi e dopo averlo accudito e disinfettato nonostante usasse gli ami più soft in commercio: lui voleva solo avvicinarlo e fotografarlo, era il suo modo per rientrare in contatto con il selvatico e provare a comunicarci… con la massima cura.

Con qualsiasi tempo, anche nei peggiori giorni di pioggia mista nebbia o ghiaccio di dicembre/gennaio in pianura. Montando la tenda, grande come un monolocale, anche al buio e sotto la pioggia.

pescatoreL’ultima volta un trentenne, dopo avergli chiesto la sua età (54), si era messo la mano sul cuore e gli aveva fatto i complimenti – in quel modo solidale e vero che forse solo gli uomini tra loro…

A me raccontava queste cose, e tante altre, le percezioni sottili e vicine all’altro mondo guadagnate dal coma in poi, le confidenze personali reciproche sugli uomini e sulle donne, e, come tanti miei amici maschi, mi diceva: “Solo con te posso confidare certe cose.” E ultimamente, di più.

Aveva le mani più grandi mai viste e sapevo che finché ci sarebbero state quelle mani sarei stata al sicuro.

Io sto scrivendo a voi, ma non sono del tutto sicura di chi sia a scrivere, perché da quel momento il tempo è come se si fosse fermato e io sono alle prese con il colpo di una grossa pietra che mi deve aver colpito la testa e faccio fatica a racimolare i pensieri… e a non lasciare in giro cose in sospeso: dopo quella sassata in fronte, si fa fatica a restare responsabili di tutto quello che qui sembra “vero”.

Doveva ancora darmi il mio regalo di Natale, lo doveva “ritirare” e me l’avrebbe dato quando sarei stata nella casa nuova – a giorni. Ha detto che aveva avuto un’intuizione e che secondo lui mi sarebbe davvero piaciuto.

È buffo come una cosa del genere, che sembra minore, resti piantata nella mia testa che continua a bruciare da ieri in questa strana curiosità. Forse perché le cose che lasciano più basiti sono quelle lasciate a metà.

Non ci eravamo mai fatti il regalo di Natale, ma le restrizioni del periodo, le vibrazioni simili o il destino han voluto che nell’ultimo anno la nostra amicizia si stringesse molto più che negli anni passati. Complice anche il suo disprezzo verso gli uomini che mi hanno fatto soffrire. Pur grande stacanovista, lui c’era, c’era davvero. Per questo era strano che non rispondesse alla mia richiesta di aiuto-trasloco nel weekend.

Ci sarebbe ancora tantissimo da dire su di lui. Ma sarebbe troppo lunga ed è meglio che queste cose restino nostre.

Quello che mi preme invece è condividere che questa cosa mi farà crescere un botto, e che mi farà sondare ancora più a fondo questo fatto che noi chiamiamo “morte” (finora l’ho conosciuta meglio lavorando su di me, non sulla perdita degli altri).

Ma una cosa voglio dire perché è stata la prima genuina e lucida ad uscire da me.

Nella nostra cultura si fa chiamare con un nome ingrato: “sano egoismo”. Viviamo in una società in cui non soffrire per un lutto è, di fatto, un grande tabù. Ma io so per certo che chi se ne va mai al mondo desidererebbe “scomodarci”, colpirci e in alcun modo farci stare male, neanche lontanamente – e lo sapete anche voi.

Quindi, siccome ieri era stata una giornata bellissima, ho pensato che l’unica cosa che io potessi fare per lui, e per riprendermi io, fosse tornare a fare le mie cose con quell’umore felice – come fanno gli animali e come da loro imparo.

So che lui mi vuole così e al primo accenno di pianto l’ho sentito frenarmi con la sua solita fermezza, come quando l’estate scorsa ho pianto tra le sue braccia per uno stronzo.

(E lui mi ha detto essere stato uno dei momenti più veri della sua vita e mi ha ringraziato per mesi per una cosa che a me pareva brutta, non certo degna di lui).

Sano egoismo in questo caso vuol dire continuare a produrre gioia per sé e per i vivi, per chi resta, per il resto del mondo.

Vuol dire onorare il passaggio di chi va e chi viene, constatando che la vita non finisce mai – che è solo uno scambio. Che qualcuno resta sempre, finché non toccherà a noi andare di là.

Sano egoismo vuol dire che so perfettamente che di là si sta “divinamente” e che quindi se sto male posso stare solo male per me, ma lui se la caverà egregiamente. Posso restare sconvolta all’idea che non vedrò più quegli occhi azzurri da husky…

E poi? A cosa serve? A me? No. A lui? No. La realtà profonda risiede da un’altra parte e lontana da questo. Io e lui lo sappiamo.

Sano egoismo è relativizzare: studiare cosa succede nei tuoi processi neuronali quando ricevi una botta in testa del genere e onorare e ringraziare il tuo corpo e la tua psiche per il processo di riequilibrio già in corso, nell’inglobare ANCHE questo….

Il tuo essere psicofisico che non si riposa mai… e che sa sempre cos’è la cosa migliore da fare per ritornare integri, anche quando nel bosco strappano via una pianta che era strettamente collegata alle tue radici e al tuo ecosistema.

 

Mi dicesti che in tutte le case in cui hai vissuto presto o tardi arrivava sempre una civetta alla tua finestra, come se ti seguisse. Bene, l’altra notte una civetta ha cantato per un’ora dall’angolo del mio tetto, in cinque anni qui in campagna non mi era mai arrivata così vicina…

Aspetto un ultimo saluto, se vorrai darmelo, altrimenti resto grata di tutto ma no, il regalo di Natale lo pretendo… devo sapere che cos’era.

Trova il modo di farmelo arrivare se mi senti.

Io penserò alle preghiere e tutto il resto.

S. S.


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